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Esattamente un anno fa, nell’agosto del 2022, dalle colonne di questo giornale provavo a sfatare i tre luoghi comuni che ingabbiavano il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ambiziosamente denominato “Italia domani” e allora percorreva il suo vero primo anno di attuazione.

Il primo luogo comune era che la caduta del Governo Draghi avrebbe rallentato il percorso a tappe forzate del PNRR. Questa narrazione invero è stata poi messa a base della accusa di inefficienza del governo uscito vincitore dalle urne, attribuendogli i ritardi nella spesa delle risorse e sull’incasso delle fatidiche rate di  finanziamento. Ovviamente sono convinto che sarebbe accaduto lo stesso anche se il risultato delle elezioni fosse stato diverso, ma Il punto è che, se il timore fosse stato legittimo, non ci troveremmo ora a criticare l’attuazione del PNRR e il futuro pagamento della quarta rata bensì a celebrarne il funerale. La tenuta delle istituzioni e il necessario rodaggio della nuova squadra di governo dimostrano come non è certo il cambio di un governo a determinare il successo o meno di un piano concepito per proiettare il paese verso una duratura ripresa e resilienza ma la volontà di darvi attuazione anche se non perfettamente in linea con il proprio programma elettorale. A onore del vero, peraltro, il ritardo nel pagamento della terza rata sbloccata solo di recente, era collegata a iniziative avviate dal governo precedente (vedi la questione stadio di Firenze e Venezia per esempio) e non a quello attuale che invece sarà pienamente responsabile dell’incasso della quarta rata a fine 2023.

Il secondo luogo comune poggiava sul presupposto contrario e cioè che l’attuazione del PNRR potesse prescindere dalla politica, viaggiando sostanzialmente con il pilota automatico in grado di compulsare la burocrazia

Questo assunto, di per sé debole, si è dimostrato fallace alla prova della nuova crisi generata dall’invasione russa dell’Ucraina -quella energetica in particolare-, che l’attuale governo ha dovuto fronteggiare. Bene, il recentissimo negoziato agostano con Bruxelles sulla rimodulazione del PNRR e sulla destinazione delle nuove risorse messe a disposizione dall’altro strumento emergenziale quale è REpowerEU non sarebbe possibile senza una compagine politica coesa. La scelta, per esempio, di affidare ai privati (imprese e terzo settore) parte dell’attuazione degli investimenti del PNRR può essere giusta o sbagliata, ma è senz’altro squisitamente politica e non tecnica.

Inoltre, come già ricordavo un anno fa, l’implementazione di molte delle riforme chiave che innervano il PNRR presuppongono la mobilitazione parlamentare e il costante confronto con le parti sociali e -aggiungo- le autonomie locali.

Infine, il terzo luogo comune consisteva nell’affermare che gli impegni assunti in Italia con il PNRR sarebbero stati imposti dall’Unione Europea. Questo è forse il luogo comune che maggiormente resiste ancora e che alimenta il sospetto che dietro tutta l’impalcatura del PNRR, con le sue regole, i suoi 527 traguardi e obiettivi da raggiungere ( e il rischio ad ogni semestre di essere rimandati al via come nel giro dell’oca) vi sia una non ben identificata forza guidata da eurocrati e lobby che mirano ad ingabbiare il nostro paese e condannarlo ad un ruolo comprimario nello scenario europeo.

Chi ancora sostiene questa tesi squisitamente complottista, dimentica il fatto che il PNRR, così come la sua odierna proposta di rimodulazione, è prodotto esclusivo del nostro paese e delle sue istituzioni. Promozioni e bocciature sono dettate dal rispetto di parametri che noi stessi (nella fattispecie il governo Draghi) ci siamo dati e che Bruxelles si è limitata a supervisionare verificandone la coerenza con le regole del Dispositivo di Ripresa e Resilienza (il cd. Recovery plan”). La riprova è che ora il negoziato in atto tra Roma e Bruxelles verte proprio su una rimodulazione e talvolta una ridefinizione di questi parametri.

Sfatati, spero definitivamente, i luoghi comuni, di che cosa dobbiamo, in quanto cittadini, realmente proeccuparci?

Pare curioso, ma il maggiore problema, la più grande criticità alberga in quella che invece l’Unione europea ha voluto offrire come una opportunità.  Da decenni i paesi dell’Unione hanno utilizzato (chi bene chi meno) centinaia di miliardi di fondi europei, essendo misurati sulla loro capacità di spesa. Si poteva andare avanti così, con questo tran-tran che prevede ogni sette anni di spostare i progetti inattuati sul nuovo pacchetto finanziario.

Il PNRR, invece, basato sulla contestuale realizzazione di riforme e su un alto numero di obiettivi di risultato (non  basta spendere, bisogna farlo bene e per assicurare un servizio duraturo alla collettività) ha imposto un cambio di paradigma, l’unico possibile per fronteggiare non solo le crisi ma anche la duplice transizione ecologica e digitale in corso.

Per rendere possibile tutto questo servono almeno due elementi -qui la sfida!-: il primo è una classe di funzionari pubblici che si senta veramente “servitore dello Stato” e non semplicemente “impiegato pubblico”. Il secondo che si facciano avanti gli imprenditori veri, in grado di soppiantare una pletora di “prenditori” che per decenni hanno vissuto alle spalle dei fondi europei. Non è poco ma sarebbe abbastanza per assicurare il successo del PNRR

(mio editoriale apparso il 20 agosto 2023 su L’Ordine, inserto domenicale de La Provincia di Como)