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Il tema della sostenibilità è stato messo a fuoco negli anni Settanta del secolo scorso e la sua apparizione sulla ribalta internazionale e politica è da attribuire in buona misura alle iniziative del Club di Roma, fondato e presieduto dall’italiano Aurelio Peccei e in particolare alla pubblicazione nel 1972 dello studio promosso dal Club stesso, dal titolo emblematico “I limiti della crescita”, improntato alla tutela del capitale naturale e dei suoi servizi ecosistemici minacciati dalla prepotente attività dell’uomo.  

L’’obiettivo successivo è stato quello di delineare una sorta di bilancio ambientale capace di integrarsi con quella prettamente economico degli Stati, cercando di immaginare uno sviluppo che valorizzasse entrambe le dimensioni, definibile quindi sostenibile

 A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, con la Conferenza di Rio del 1992 e l’istituzione dell’Agenda 21, è emersa anche la consapevolezza che tale sviluppo sostenibile non potesse essere affidato solo ad alcuni paesi volenterosi, ma si dovesse basare su una strategia globale fondata su intese intergovernative e spinta dalla allora promettente globalizzazione.

Nella prima decade del corrente secolo il perimetro della sostenibilità è andato allargandosi, abbracciando tutti gli asset del pianeta, dunque non solo il capitale naturale ma anche il capitale umano e  il c.d. capitale strumentale allo sviluppo socioeconomico e la salute

 «Leave no one behind» (non lasciare indietro nessuno) è il credo dell’Agenda 2030 varata nel 2015 in seno alle Nazioni Unite e sostanzialmente fatta propria anche dall’Agenda della presidente della Commissione uscente Ursula von der Leyen per il suo mandato 2019-2024. Trasposizione certamente animata dall’ambizione di fare dell’Unione Europea il principale traghettatore verso un mondo migliore e sostenibile, capace di adattarsi agli evidenti mutamenti climatici, ma incapace di prendere in considerazione due elementi fondamentali. Il primo, peraltro imprevedibile, è stato il repentino mutamento geopolitico tuttora in atto, generato dall’invasione russa dell’Ucraina e poi anche dalla crisi medio orientale. Crisi alle quali, in tema di coordinamento degli approvvigionamenti energetici e delle terre rare, l’Europa non ha ancora dato una risposta unitaria. Il secondo aspetto, questo invece colpevolmente ignorato, è stato quello dei persistenti divari territoriali all’interno delle regioni europee e dei singoli stati membri con differenti impatti delle crisi sopra menzionate e differenti opportunità per cogliere le sfide lanciate dalla trasformazione ecologica e digitale.

Le proteste degli agricoltori, formalmente accese da estemporanei e tutto sommato limitati e limitabili aggravi fiscali (Irpef su redditi dominicali e agrari di coltivatori diretti e imprenditori agricoli  e le accise sul carburante agricolo in Francia) sono solo la punta di un iceberg di diffusa preoccupazione circa la “sostenibilità” dei costi per adattarsi ai mutamenti climatici e alle deglobalizzazione (aggiungiamo l’alto costo del denaro imposto dalla BCE). Preoccupazione condivisa dagli operatori di  altri comparti magari meno “rumorosi” ma fondamentali per l’economia del nostro paese e raccolti nei vari distretti industriali che costellano il nostro paese. Insieme all’agricoltura è infatti evidente che a pagare principalmente gli emergenti costi della transizione ecologica sia la manifattura, energivora, consumatrice di acqua, dipendente dai trasporti, chiamata a sostenere ingenti investimenti finanziari, limitata nei processi di internazionalizzazione da un pianeta in crescente belligeranza.

L’analisi della sostenibilità delle aree industriali diventa allora una straordinaria palestra per comprendere realmente la dimensione attuale del processo di sviluppo sostenibile, che non si esaurisce affatto nella dimensione ambientale, ma abbraccia anche quella economica e quella sociale. Rileva  dunque a questo proposito non solo l’attrattività dell’area di riferimento (dall’imposizione fiscale locale al collegamento con le principali arterie di viabilità merci) ma anche il benessere percepito dai lavoratori e dalle loro famiglie. Benessere che spazia dalla sicurezza dei luoghi frequentati, dall’offerta educativa per i propri figli, alla mobilità urbana, al verde urbano e ovviamente dalla stabilità e dignità del proprio posto di lavoro.

L’auspicio è che la prossima Commissione europea, che uscirà dalla imminente tornata elettorale, provi a guardare lo sviluppo sostenibile, le sue opportunità e i suoi costi, dal basso, partendo proprio da quei soggetti che maggiormente se ne devono fare carico, ovvero le famiglie e le imprese manifatturiere e agricole. Con la consapevolezza che non esiste un idealtipo di abitazione familiare in Europa (nel solo Veneto vi sono più dimore storiche di tutta la Francia per esempio), così come non esiste un idealtipo di distretto industriale o di area industriale o di area rurale.

Nascondersi dietro l’illusione che l’adattamento ai mutamenti climatici e al nuovo scenario geopolitico siano senza costi non è meno grave del negare che vi sia un mutamento climatico in atto. Ancora più grave pensare che questi costi si abbattano in maniera omogenea sui territori e i loro abitanti (covid docet). Essere coesi e integrati non significa essere uguali ma ciascuno forte delle proprie specificità e consapevole delle proprie debolezze.

L’auspicio è che al primo posto nei programmi elettorali ora e poi nella futura agenda politica della nuova Commissione vi sia una ampia presa di coscienza dell’impatto di questi costi, che è doveroso sostenere, ma, per usare un termine alla moda, in maniera sostenibile per coloro che sono e saranno chiamati a spingerci in questo processo di adattamento. Per evitare che il mondo migliore sia solo per pochi beneficiati e nel sogno dei molti altri. Una sfida che solo in una Europa unita nelle sue diversità potremo sostenere.

(Estratto mio editoriale pubblicato su Quodidiano Nazionale in data 18 marzo 2024 dal titolo “La sostenibilità è indisponsabile. Ma i cotsi sociali vanni distribuiti”)